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Diversi eppure uguali, la visione Humanae di Angélica Dass

“Sono passati 128 anni da quando l’ultimo paese al mondo ha abolito la schiavitù, ma viviamo ancora in un mondo in cui il colore della pelle condiziona non solo la prima impressione, ma anche quella definitiva”.

Con queste parole la fotografa brasiliana Angélica Dass apre il suo discorso sul palco di Ted, dove quattro anni fa ha parlato di Humanae, un progetto di condivisione e accettazione dell’altro che punta a mostrare – codici alla mano – che la categorizzazione in razze basata sul colore della pelle ha ben poco senso di esistere.

Angélica è cresciuta in una famiglia multietnica: suo padre ha la pelle scura come il cioccolato, la sua nonna adottiva ha un incarnato di porcellana, altri membri hanno un colorito rosa fragola, altri dorato, una zia ha la pelle che vira verso il beige e ricorda tanto il colore di un pancake. E tuttavia, pur essendo stata educata in un contesto così accogliente, la sua vita al di fuori dell’ambito familiare è stata ben diversa. Si è spesso scontrata con le discriminazioni dure a morire di un Brasile che è stato l’ultimo paese al mondo ad abolire la schiavitù. Lei, con la sua pelle scura e i capelli ricci e corposi, è stata spesso vittima di pregiudizi, venendo a volte scambiata per una prostituta, e ha vissuto in prima persona cosa vuol dire dover lottare per essere trattati come tutti gli altri in un mondo che a parole si dichiara inclusivo. 

I recenti fatti di cronaca, e le rivolte che stanno scuotendo le coscienze mondiali in questo 2020 che sembra non voler darci tregua, non fanno che amplificare il messaggio espresso in forma d’arte che la Dass porta avanti ormai dal 2012.

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Humanae, un enorme mosaico di volti e colori

Humanae, questo il nome del progetto, vuole mostrare al mondo quanto siamo uguali pur essendo diversi, e quanto non abbia senso di parlare di pelle bianca, nera o gialla quando in verità ogni individuo è unico.

Un esperimento simile aveva già ottenuto una certa rilevanza mediatica pochi anni prima: Facity, una galleria di volti creata attraverso il contributo di fotografi da tutto il mondo, il cui scopo era mettere in evidenza la bellezza al naturale con tutte le sue imperfezioni. Ogni volto era ritratto senza alcun tipo di trucco, con espressione neutra, sguardo rivolto alla macchina e capelli legati. Questo grande museo virtuale si arricchisce tuttora di visi e continua ad affascinare.

Ma la Dass, nel suo Humanae, fa qualcosa in più. Parlavo qualche riga fa di codici. In Facity, i volti sono sempre e comunque rappresentati su sfondo neutro. Angélica immortala i suoi modelli in posizione frontale e su sfondo bianco, ma poi assegna a ognuno di essi un numero. Non certo un tentativo di spersonalizzazione, assolutamente no, ma un identificativo che metta in evidenza l’unicità irripetibile di ogni individuo. Lo sfondo bianco delle fotografie viene sostituito con il colore dominante dell’incarnato dei soggetti ritratti, e il relativo numero di pantone – la tabella internazionale di riferimento e catalogazione dei colori che viene utilizzata da grafici, chimici e industriali – ne diventa la didascalia.

Il risultato è un mosaico in cui ogni viso è perfettamente armonizzato con lo sfondo e che nell’insieme fornisce una spettacolare visuale di quanto la razza umana sia diversificata eppure unita. Tutti i modelli partecipano volontariamente al progetto, non c’è alcun requisito né selezione, soltanto la voglia di far parte di una comunità poliedrica, policromatica e assolutamente umana.

Dai musei alle scuole, un progetto che insegna l’inclusione

L’eco mediatica del lavoro della Dass sta risuonando in tutto il mondo. Non solo le sue fotografie vengono esposte nei musei e lungo le strade, ma il progetto è spesso utilizzato nelle scuole per insegnare il concetto di uguaglianza ai ragazzi. Oltre a risvolti secondari inaspettati, ma pur sempre graditi: moltissimi studenti d’arte fanno ricorso alla galleria di Humanae per esercitarsi nel disegno dei volti. Un autentico case study che sta aiutando le nuove generazioni a far sentire la propria voce in materia di diritti umani. Perché a volte un’immagine, uno sguardo lanciato dritto nell’anima di chi guarda, fa molto più rumore di mille parole.

Un progetto di cui, mai come adesso, l’umanità ha bisogno.

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