Di Maria Svarbova, o Mária Švarbová volendo usare la scrittura slovacca, si potrebbe dire tanto e comunque avere ancora spazio per il non detto. E forse non è un caso che, collegandosi al sito web dell’artista, ci si trovi davanti a una pagina bianca, un velo silenzioso dal quale accedere al suo mondo personale senza presentazioni di alcun tipo, ma soltanto scegliendo quali stanze visitarne.
Questa giovane fotografa, sia nella vita che nell’arte, è voce della terra contraddittoria in cui è nata e cresciuta: quella Slovacchia incastonata nel cuore di un’Europa fatta di montagne e architetture in legno, ma anche di cemento e strade desolate. Una voce che inevitabilmente si fa sentire nei suoi lavori, una produzione che si nutre delle architetture post-socialiste di cui la Slovacchia è costellata, ma le rielabora in modo da renderle asettiche quel tanto che basta da fare spazio a una visione più autentica e brutalmente umana.
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Maria Svarbova e l’elemento umano nei paesaggi urbani, quando il cemento incontra il colore
È interessante notare il modo in cui l’elemento umano si fonde con le linee nette ed essenziali dei paesaggi in cui viene introdotto, siano essi urbani o extraurbani. C’è una sapienza innata nel gestire pareti di cemento spoglio e trasformarle in qualche modo in una sorta di cartolina. Sembra quasi che la Svarbova riesca a donare al cemento la leggerezza che per natura gli manca.
Ma ancora più sorprendente è quello che riesce a ottenere quando immortala attimi di quotidiano, persone che vivono, abitano strade e ambienti, ma che sembrano comunque muoversi in un mondo onirico. Una preponderanza di toni pastello che impregnano ogni cosa di una malinconia sottile, poetica, elegante persino.
Mi sembra di leggere, in questi lavori, una serie di richiami ad artisti moderni e contemporanei, un po’ di Hopper, un po’ di Vettriano e una punta di De Chirico, ma con un qualcosa in più: un’aggiunta di delicatezza che ingentilisce l’insieme. Persino nei lavori più surreali, come il progetto Plastic People, Maria sembra approcciarsi alle realtà che rappresenta con un occhio amorevole, quasi come volesse prendersi cura di un dolore.
Non c’è da stupirsi che realtà internazionali, come Apple e il Museum of Ice Cream, l’abbiano voluta tra le loro file ancora giovanissima. Nonostante abbia fatto il suo ingresso nel mondo della fotografia soltanto nel 2010, la Svarbova ha già collezionato esposizioni, mostre personali e menzioni dai più importanti organi di stampa mondiali: Forbes, Vogue, Cosmopolitan, CNN e persino la Harvard Business Review non hanno potuto fare a meno di darle spazio.
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L’incontro con l’acqua: un dialogo di linee e simmetrie
Ma è quando può giocare con i riflessi che Maria Svarbova dà il meglio di sé. In tutti i progetti realizzati a bordo piscina – ambientazione che sembra andarle particolarmente a genio – c’è sempre una ricerca di simmetrie che trae in inganno occhio e cervello creando un continuo movimento. I colori sono luminosi, saturati, quasi artefatti in modo da rendere il corpo umano una serie di linee e forme che è parte del tutto.
Ed è un effetto sorprendente: è come se i soggetti nelle foto, e con loro le linee che li definiscono, vorticassero e fossero immobili allo stesso tempo. La Svarbova ama l’acqua e si potrebbe affermare che l’acqua la ami altrettanto.
Ecco, quindi, il mio suggerimento per questa settimana: un’artista da scoprire o riscoprire, in grado di vedere oltre la facciata del reale e coglierne la parte più gentile, per un risultato che non lascia mai indifferenti.
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