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Walter Bonatti, l’uomo che voleva toccare il cielo

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Non sempre è detto che ciò che facciamo sia spirito di ciò che siamo. Se ci si chiede cosa facesse nella vita Walter Bonatti, quale fosse il suo mestiere insomma, dovremmo rispondere che era prima di tutto un giornalista e un reporter.

Ma, se volessimo dirci chi o cosa egli fosse davvero, cosa lo rendesse vivo, allora la riposta è senza dubbio un esploratore, nel senso più romantico del termine. Un controverso quanto acclamato uomo delle montagne, il cui scopo nella vita era toccare – possibilmente per primo – i confini stessi delle capacità umane.

​Una vita da esploratore in giro per il mondo

Di lui si è detto e scritto molto. Ha vissuto girando il mondo e documentandone gli angoli meno conosciuti, si è confrontato con culture indigene di ogni terra raccontando le sue avventure su libri e giornali. Ha anche avuto un grande amore così intenso – quello con l’attrice Rossana Podestà – che è durato oltre la sua vita terrena.

Ma ciò che lo ha reso leggenda è quello che ha compiuto in gioventù, la sua esperienza con la scalata che, non solo ha segnato la storia dell’alpinismo italiano, ma ha anche ispirato autori del calibro di Buzzati e politici di prima linea come Saragat.

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​Le prime grandi imprese con la scalata

Un’impresa da vero esploratore è quella che apre la strada a chi verrà dopo, senza alcuna pretesa di restare imbattuta ma con l’unico desiderio di spingere un po’ più in là il confine del possibile.

Prima del Grand Capucin, un obelisco di granito rosso nella Cresta du Diable, Walter Bonatti non era nessuno: un semplice operaio amante delle scalate che neppure poteva permettersi di trascorrere le notti in rifugio. Fu quella parete di granito praticamente levigato a portarlo sotto i riflettori nel 1951, quando, dopo ben due tentativi falliti, insieme a Luciano Ghigo riuscì a toccarne la vetta dimostrando che una via per la scalata era possibile, a patto di avere una volontà più ostinata della roccia stessa.

Eppure, la parete del Grand Capucin non fu l’unica per la quale Bonatti sfidò ogni prospettiva di successo: solo quattro anni dopo, nel 1955, si spinse sulla guglia del Petit Dru effettuando, nel punto più impervio del pilastro, un vero e proprio salto nel vuoto di oltre dieci metri per raggiungere la parete più agevole.

Due episodi che, oltre ad avere sentori di leggenda, mostrarono al pubblico la tempra di Bonatti e il suo carattere tenace, aspetti distintivi di tutta la sua vita.

​Walter Bonatti e la controversa scalata del K2

Parlavo in apertura di personaggio controverso. In effetti, fatta eccezione per i due episodi che ho raccontato, ciò che caratterizzò la carriera da alpinista di Walter Bonatti fu una gran dose di ombre, drammi ed episodi mai chiariti che infangarono la sua reputazione.

Ma un’impresa su tutte è, per il grande pubblico, inevitabilmente legata al suo nome: la scalata del K2, un’avventura su cui la stampa tornò a intervalli regolari durante la sua vita, svelandone man mano retroscena poco noti ma che inevitabilmente intaccarono l’aura da grande esploratore cui Bonatti era circondato.

Partirono in quattro nel 1954: Bonatti, Achille Compagnoni, Lino Lacedelli e Ardito Desio, coordinatore della spedizione e geologo, decisi ad arrivare in vetta per la prima volta al mondo. Ad essi si aggiunse sul posto Amir Mahdi, che affiancò Bonatti, essendo la spedizione organizzata in due gruppi.

Si trattava di un’avventura problematica sin dalle premesse: pur essendo più basso del Monte Everest, il K2 aveva una natura molto più impervia ed era universalmente considerato la montagna più pericolosa del mondo. Durante una notte gelida, che portò il pakistano sull’orlo della pazzia, Bonatti e Mahdi proseguirono l’avanzata verso la cima ignorando le indicazioni del capospedizione che premeva per la ritirata.

L’impresa si risolse, alla fine, con la condivisione della vetta da parte di tutti gli scalatori, ma bastò poco a convincere l’opinione pubblica che Bonatti avesse agito in cerca di gloria personale. Opinione che fu screditata solo quarant’anni dopo, quando la sua versione venne finalmente ascoltata dal CAI.

Come questa, diverse altre imprese dell’alpinista nostrano furono segnate dalla sfortuna, con la morte di alcuni compagni di scalata o gravi ferite, cosa che collaborò a nutrire ulteriormente la sua controversa fama, al punto che, a soli 35 anni, Bonatti decise di ritirarsi dall’alpinismo.

Molti spiano in me soltanto il più piccolo fallo, il più piccolo peccato, la più sottile fessura in cui far leva, per rendermi la vita amara. Forse agiscono così soltanto per provare a se stessi che sono un essere umano. E lo sono, infatti, seppure nel mio modo di vivere da solo, e spesso non capito. Non è la montagna, tuttavia, che mi delude, ma l’opacità di certa gente”.

– I giorni grandi del 1971

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​Un’ultima grande impresa

Tuttavia, come accade nelle migliori storie, il suo addio alle montagne fu coronato da un climax, un’ultima grande impresa che consegnasse il suo nome alla memoria collettiva dell’Italia e dell’alpinismo. L’obiettivo era scalare la parete Nord del Cervino come mai prima di allora era stato fatto: in pieno inverno, da solo e seguendo un percorso più difficile anziché i tracciati più popolari.

Scenderò dai monti, ma non certo per restare a valle: di lassù ho visto e capito altri orizzonti”.

– I giorni grandi del 1971

Durò quattro giorni e quattro notti e, per arrivare in cima, Bonatti utilizzò una tecnica molto poco diffusa. Per non perdere l’attrezzatura, effettuò due salite e una discesa. Quando, alla fine, conquistò la vetta, raccolse il saluto dei suoi sostenitori che sorvolarono il Cervino in aereo. Un ultimo omaggio a un uomo che, sfidando le barriere della fragile natura umana, si era spinto per l’ultima volta oltre ogni suo limite.

Gli aerei che finora mi hanno assordato col loro rombo sembrano intuire la solennità del momento. Forse per discrezione, si allontanano un po’ e mi lasciano percorrere gli ultimi metri in silenzio, completamente solo. Come ipnotizzato, stendo le braccia verso la croce, fino a stringere al petto il suo scheletro metallico: le ginocchia mi si piegano e piango”.

– I giorni grandi del 1971

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